Questa parola non è un gioco di parole, ma vuole esprimere un concetto, ovvero che, contrariamente a quanto comunemente si possa pensare, assumere dei farmaci non è soltanto ingoiare una pillola; questo semplice gesto può essere il punto di arrivo di un percorso talvolta piuttosto complesso e non privo di timori, ambivalenze, ripensamenti, aspettative talvolta negative, talvolta illusorie, da parte di chi lo compie, ossia di chi assume il farmaco. E’ quindi un gesto che sottintende accurate spiegazioni da parte di chi prescrive il farmaco, e richiede attenzione, possibilmente non troppo condizionata da pregiudizi, da parte di chi è destinatario della prescrizione. La prescrizione di un farmaco insomma necessita di un compresente processo di buona comunicazione ed informazione. Questo processo va sostenuto con un giusto atteggiamento esplorativo, volto ad osservare e condividere, tra medico e paziente, le osservazioni dei fenomeni che via via si verificano nel procedere della terapia. Dai farmaci infatti ci si possono e devono aspettare gli effetti auspicati, ovvero quelli che riducono o rimuovono i sintomi, ma ci si possono aspettare anche effetti indesiderati, che, per fortuna, non sempre compaiono. Spesso i tempi di comparsa degli effetti desiderati e di quelli indesiderati sono differenziati e così può capitare di trovarsi a fare i conti con un farmaco che, una volta assunto, produce in primo luogo effetti collaterali. Se non siamo preparati e predisposti a questa evenienza, naturalmente penseremo subito che il medico che ci ha prescritto questo farmaco si sia sbagliato, non sappia fare il proprio lavoro o che i farmaci siano qualcosa da temere e basta. Ci sono due momenti delicati nel trattamento farmacologico dei disturbi psichici. Quello iniziale, dove appunto spesso gli effetti auspicati si manifestano soltanto dopo un certo tempo di assunzione della terapia (in alcuni casi fino anche ad alcune settimane), ma anche il momento della fine della terapia. Non di rado accade difatti che chi assume una terapia e magari ne ha tratto ottimo giovamento, ad un certo punto, proprio perché si sente bene, smetta di assumere la terapia senza essersi consultato con il medico; ecco che lì si annida il rischio di possibili ricadute. Non che la cessazione della terapia farmacologica non debba essere contemplata, anzi, è giusto prendere in considerazione, a seconda del farmaco, del tipo di problema trattato e di tanti altri fattori, la sospensione della terapia farmacologica; è però bene fare questo passo in stretta concordanza con il medico e/o lo psicologo, proprio perché, nel momento in cui si rinuncia alla “stampella” farmacologica, è opportuno verificare con maggiore attenzione l’andamento del proprio stato di salute al fine sia di: in primo luogo mettere a punto o consolidare strategie non farmacologiche, ad esempio psicoterapeutiche, per la gestione dei propri stati d’animo, poi per eventualmente individuare precocemente segni di possibile ricaduta e, in ultimo, ma non meno importante, anche proprio per evitare di enfatizzare piccole oscillazioni delle proprie condizioni psichiche, attribuendole subito alla sospensione del farmaco. Può infatti capitare spesso che nel momento di abbandonare la “stampella” farmacologica, ci si possa sentire insicuri nei primi passi o subito timorosi di una ricaduta al primo tentennamento emotivo di una certa intensità. Avere già inquadrato questi momenti in una cornice di eventi prevedibili e comprensibili, che sono pertinenti alla sospensione della terapia farmacologica ed avere la possibilità di confrontarsi in modo programmato su questo tema con lo psichiatra, aiuta in modo decisivo ad accedere al superamento dei timori legati alla fase di emancipazione dalla terapia farmacologica.