In questo breve articolo desidero mettere in luce una contraddizione che spesso si viene a creare nel teatro della salute mentale quando in esso entrano situazioni, quali procedimenti giudiziari e figure del sistema legale, quali giudici ed avvocati.

La situazione di riferimento è quella relativa ad una persona affetta da malattia mentale che al tempo stesso abbia commesso dei reati (limitiamoci a reati di non estrema gravità, ma che comunque potrebbero determinare delle condanne penali).

Ovviamente questa persona avrà diritto ad avere un’assistenza legale e l’avvocato avrà come suo primo obiettivo quello di far ottenere al soggetto il minimo della pena, oppure la sospensione della stessa o la non imputabilità per infermità mentale.

Lo psichiatra, ovvero il Servizio Psichiatrico che sovente ha il soggetto in cura, avrà come obiettivo primario la guarigione, completa o “sociale”, come si usa dire per i quadri clinici più compromessi. Soprattutto in tali casi la guarigione sociale, sempre detto per sommi capi, consiste nel restituire un senso di realtà a chi lo ha perso, in buona parte, quasi mai totalmente.

In un siffatto quadro dunque l’evitamento del processo, la “deviazione” dalla pena, quale invece subirebbe un qualsiasi libero cittadino non gravato da una diagnosi psichiatrica e di una valutazione di “scemata o assente capacità di intendere e volere”, verso il trattamento in regimi tipo ex ospedale giudiziario, configura un evitamento del confronto con la realtà. Questo evitamento entra dunque in contrasto con l’obiettivo di restituzione di un senso di realtà. Proprio quando la società, tramite il sistema delle leggi, del processo, del giudizio, offre una grande occasione alla persona sofferente di una patologia psichica, di appropriarsi della propria responsabilità, il meccanismo legale e giudiziario rischia di compromettere queste potenzialità terapeutiche.

E’ chiaro che un soggetto affetto da un disturbo mentale dovrebbe, oltre la eventuale pena, ricevere la possibilità delle cure, volte proprio a realizzare il dettato riabilitativo non solo nella valenza giudiziaria e legale, ma ovviamente anche in quella terapeutica, che mai come in una situazione come questa, vanno strettamente a braccetto.

Purtroppo gli esiti talora dubbi di questi conflitti di obiettivi, risultano in “ibridi” cioè in situazioni in cui i soggetti vengono condannati alla detenzione in strutture psichiatriche, sia pure non più denominate come ospedali giudiziari, ma normali strutture dei servizi di salute mentale territoriali, senza che vi sia una restituzione più ampia alla società (includendo a fondo ad esempio i servizi sociali) del compito di reintegro sociale. Così il successo dell’avvocato, la formulazione conclusiva del giudice rischiano di corrispondere alla sconfitta del progetto terapeutico e, in non ultima analisi, del paziente/cliente.