No, anzi, al contrario, nella maggior parte della propria esistenza è in grado di capire quello che fa. Ma questa non è la risposta che comunemente viene in mente alla maggior parte dell’opinione comune e anche di coloro che operano in tante agenzie a carattere sociale, legale o lavorativo, che per motivi vari ed a vario titolo si trovano ad interagire con il problema della sanità o insanità mentale.
La risposta a questa domanda ha spesso conseguenze importanti non solo nell’ambito più drammatico della psichiatria forense, ma anche in quello della vita di tutti i giorni, in particolare nei piccoli o grandi eventi che possono capitare nell’ambito in cui società, utenti dei servizi di salute mentale e servizi di salute mentale si interfacciano.
In questo secondo ambito, dove gli accadimenti possono essere molto più frequenti ma ciò che accade non ha perlopiù rilevanza giudiziaria (attenzione non sto dicendo “non giuridica”), le conseguenze degli atteggiamenti verso la capacità di intendere e volere dei cosiddetti malati mentali possono essere sicuramente molto più subdole, insinuanti e pervasive.
La malattia psichiatrica di per sé non elimina né riduce apriori la capacitá di intendere e volere.
Il giudizio di capacitá di intendere e volere va sempre riferito a specifici fatti, a specifici comportamenti e non alla persona in toto o al fatto che la persona soffra di una qualsivoglia patologia, organica o psichica che sia.
Cosí puó succedere che una persona che compia atti che costituiscono reato possa trovarsi, nel fare questo in uno stato di ridotta o non presente capacitá di intendere e volere e al tempo stesso non sia portatore di un disagio rubricabile come malattia mentale, mentre una persona a cui è stata diagnosticata una patologia mentale ancorché di per sé grave, puó, nel compiere un atto che costituisce reato, essere totalmente capace di intendere e volere.
Questo è un concetto difficile da spiegare all’opinione comune, poiché normalmente si ritiene o che chi compie determinati reati sia “pazzo” o che chi è “pazzo” sia particolarmente incline a commettere azioni biasimevoli e che facilmente costituiscano reato. Di solito a queste considerazioni ne seguono altre del tipo: ha fatto questo, è pazzo, deve essere rinchiuso ( in manicomio) fino a che non sia stato curato (si presume) dalla follia da cui è affetto.
Ma a questo punto ci si chiede quale possa essere l’obiettivo principale di una cura per una persona che ha commesso una azione con un marcato disvalore sociale senza rendersene conto. L’obiettivo primo e centrale, più plausibile, appare quello dello sviluppo di una consapevolezza del disvalore sociale dell’azione compiuta, ovvero della restituzione di un senso di realtà a colui che presuntivamente l’ha perduto. Bene, la realtà non impone forse nella sua trama di ordinamenti che la società si è data, che chi commette reato sia processato ed eventualmente condannato? Non è forse questo che porta l’autore di reato a riflettere sul disvalore sociale del reato e a porre le basi di una sua riabilitazione? Di conseguenza perché negare a chi ha commesso un reato proprio i presupposti più sostanziali per restituirgli il senso della realtà. E soprattutto perché permettere a molti, soprattutto veri criminali, di manipolare, sfruttare il concetto di malattia mentale (con un danno sociale e culturale per tutoli sistema delle cure ed i pazienti stessi ingenerale) per ottenere uno sconto se non l’esenzione di pena?
Peró per l’ordinamento legislativo corrente, chi compie un reato in una condizione giudicata di non capacitá di intendere e volere non è imputabile ma va curato e le cure non possono passare dalla reclusione e quindi non va rinchiuso. Va da sé che logicamente questo tipo di dinamica si presta a due tipi di deformazione: 1) chi è lucido autore di reato avrá un interesse a passare per incapace di intendere e volere, al fine di limitare o evitare l’internamento carcerario 2) chi fosse sofferente di una malattia mentale potrebbe anche pensare di avere una sorta di “patente” per commettere azioni anche discutibili, rimanendo impunito.
Qui si verifica dunque un paradosso: a chi viene giudicato non in grado di intendere e volere (a parte il fatto che poteva esserlo al momento del fatto ma poi non esserlo piú, incapace) che dovrebbe essere aiutato a divenirlo, ovvero a fare un esame di realtá e quindi a sperimentare le conseguenze su un piano di realtá degli atti da lui/lei stesso/a compiuti, ovvero sostenere il processo ed anche una eventuale condanna, come una qualsiasi altra persona autrice di reato e ritenuta totalmente capace, viene tolta di fatto la possibilitá di un confronto con la realtá effettiva del proprio agire, mentre a chi è capace di intendere e volere ma riesce a farsi passare per non capace, viene data la possibilitá di evitare di affrontare le conseguenze del suo agire.
Ma in linea di massima, cos’è che ci puó orientare nello spesso non facile compito di stabilire se una persona al momento di compiere azioni che costituiscono reato era in grado o meno di comprendere ció che faceva? In generale è un concetto di comportamento strategico: se nell’agire si perseguiva in qualche modo un fine (un guadagno personale, la libera espressione di un proprio fine egoistico) o se l’azione derivava o consisteva in un comportamento sintomatico, diretta espressione di malattia (es. eliminare una persona vedendo in essa, in modo allucinato e delirante, il diavolo).
Nel piccolo della pratica quotidiana in un servizio psichiatrico pubblico si incontrano spesso situazioni che mettono in discussione questo criterio, per fortuna non riferito a reati ma ad una sorta di piccoli – grandi vantaggi secondari di malattia: una invalidazione della capacità decisionale di chi, essendo affetto da una patologia mentale, viene tout court considerato meno capace di prendere decisioni; una invalidazione e stigmatizzazione della forza contrattuale nell’ambito lavorativo (spesso se uno ha avuto contatti con la psichiatria, questo costituisce un disvalore curriculare ) e nell’ambito familiare (es. nell’ambito della capacità genitoriale, chi ha avuto un contatto con la psichiatria, viene comunque guadato con sospetto e presuntivamente considerato meno capace di svolgere la funzione genitoriale) e nell’ambito delle stesse cure (poichè è “malato” non può assumersi la responsabilità di stare o meno in trattamento). Tutte situazioni in cui la persona viene espropriata della attribuzione di capacità di agire, venendo quindi invalidata della possibilità di assumersi delle responsabilità e quindi appunto “rispondere” dei propri comportamenti, idee , sentimenti.
Articoletto molto interessante ed eslicativo, perché fissa chiaramente alcune distinzioni, non immediatamente conosciute dal profano della materia. Ringrazio il distinto autore.