Stefano Egidi
INTRODUZIONE
Nel mio intervento vorrei proporre delle riflessioni in tema di contenzione fisica e reclusione, molto concrete, provenienti dalla quotidiana pratica clinica della psichiatria ed anche a carattere soggettivo, sia nel senso personale che nel senso di soggettivitá dello psichiatra o di qualsiasi altro operatore che lavori nell’ambito della salute mentale.
Ho ritenuto di individuare nella contenzione fisica una vera e propria forma di psicopatologia del sistema assistenziale -terapeutico, riferibile sostanzialmente a fattori organizzativi e fattori inerenti alla relazione terapeutica che discendono pur sempre comunque dai primi. Non nascondo un intento un po’ provocatorio e paradossale in questa operazione di concettualizzazione, allo scopo di stimolare un proficuo scambio comunicativo, ovvero non intendo dire che i colleghi o i sistemi che operano in modo diverso da quello “consigliato” siano degni di attenzione clinica (come recitano alcune categorie e codici diagnostici dei manuali tipo ICD o DSM…).
Personalmente ritengo il ricorso alla contenzione fisica una sconfitta dell‘intelletto oltre che istanza moralmente negativa. Se solo si pensa all’iter esistenuziale e di studio che porta uno psichiatra a decidere di fare questo lavoro, di interessarsi a quell’insieme di discipline scientifiche ed umanistiche, risulta difficile comprendere come questa “recherche” possa esitare nella decisione di legare un altro essere umano, come soluzione ad un problema (che non sia di carattere bellico). Qui dovrebbe accendersi una lampadina, si dovrebbe raccogliere anche una sfida: proprio di fronte al problema piú duro e difficile da risolvere, avvertire tutta la vitalitá della scelta di lavoro e di interessi intellettuali.
Un secondo aspetto é poi quello dell’abitudine: mi abituo a risolvere problemi di conflittualitá con questo „muro“. Non fare ricorso alla contenzione mi costringe invece ad „affilare la mente“, a pensare a nuove soluzioni; aumenta il mio bagaglio terapeutico, dá un senso diverso all‘organizzazione del lavoro, al gruppo terapeutico stesso
PATOGENESI DELLA CONTENZIONE
Ritengo che la contenzione non sia necessariamente la manifestazione di una istanza repressiva da parte degli operatori, medici e non, quanto piuttosto espressione di una organizzazione disfunzionale, o meglio, “funzionale”, suo malgrado, all’applicazione della contenzione.
Per chiarezza espositiva e con un certo carattere provocatorio a livello comunicativo, parleró dunque di patogenesi della contenzione, evidenziando quei fattori che, a mio avviso, e sulla base della esperienza lavorativa in atto dal 1999 a Merano, sono implicati nell’applicazione e nel mantenimento delle misure di contenzione fisica su pazienti ricoverati nel reparto psichiatrico; evidenzieró poi quelli che appaiono invece essere i fattori utili ad instaurare un circolo virtuoso nel quale non si debba nemmeno porre la questione del ricorso alla contenzione fisica.
dove comincia la contenzione
Quello della contenzione fisica appare un problema che viene affrontato nella letteratura internazionale prevalentemente nei termini di misure per affrontare e gestire il problema “aggressivitá” nell’ambito di strutture psichiatriche; se ne parla in termini di alternativa a misure farmacologiche, in termini di “dosaggio” (come e quanto legare,per quanto tempo), in termini di appropriatezza rispetto a valutazioni psicometriche e scale di misurazione dell’aggressvitá ed anche in termini di possibili danni indotti dalla contenzione.
Tutto ció peró sempre a partire dal chiuso di una struttura, che sia reparto psichiatrico per acuti o ospedale psichiatrico; in sostanza il discorso parte giá da una situazione piú o meno di reclusione, in cui é scontato il dato che c’é un paziente che deve essere in situazione di ricovero ed un operatore che lo deve curare all’interno delle mura della struttura. Dal punto di osservazione che vorrei proporre, questa letteratura , non puó apportare nulla al nostro discorso, perché nella situazione che viene rappresentata e presa in analisi, “il Terribile é giá accaduto” per dirla con Heidegger, ovvero la “chiusura” del curando e del curante é giá stata effettuata, é anzi data per scontata e l’unica questione possibile é che cosa succederá all’interno di questa relazione e situazione giá “chiusa” rispetto al mondo. Un mondo con il quale la radicale riforma introdotta dalla legge 180 ci ha imposto, in Italia, di aver a che fare, un mondo che poi in termini un po’ tecnici é stato chiamato Territorio.
In realtá la contenzione fisica non inizia al letto del paziente o all’interno del reparto psichiatrico per acuti, quello che in Italia si identifica come SPDC; la contenzione che spesso, a mio avviso, si produce come inevitabile necessitá (per poi stabilirsi come “facile” prassi) é soltanto la punta dell’iceberg; essa inizia sul territorio, a partire da quello che si fa sul territorio, o, ancor meglio, piú probabilmente da quello che non si fa sul territorio.
FATTORI CHE FAVORISCONO LA CONTENZIONE
A parere di chi scrive ci sono delle caratteristiche dell’organizzazione complessiva del Servizio di Salute Mentale e del tipo di relazioni terapeutiche che conseguentemente si possono sviluppare al suo interno, che sono all’origine del ricorso alla contenzione fisica.
La contenzione la possiamo vedere come una forma di blocco della comunicazione, o una forma esasperata e repressiva di comunicazione,cui si fa ricorso di fronte al fallimento di altre possibili forme di comunicazione. L’aggressivitá del paziente (auto od etero diretta) che é sempre la via finale che giustifica l’atto contenitivo,non va considerata un imprescindibile dato di partenza; essa é modulata da molteplici fattori, tra i quali sicuramente uno molto importante é la relazione con le persone che egli si trova ad avere intorno.
A questo punto proviamo ad immaginarci quali possibili percorsi puó seguire un paziente in fase critica, ponendo particolare attenzione alle vicende relazionali in quanto modulatorie dell’aggressivitá.
La soluzione di continuitá nella referenza rispetto al paziente in crisi. Quando é in crisi il pz incontra in serie vari operatori, viene “scaricato” dal territorio e preso in carico dal reparto. Gli operatori che ne determinano la “reclusione” non si pongono poi come referenti dell’atto stesso compiuto, nel senso che non seguono piú il pz nella fase di ricovero; il pz vive il ricovero come una limitazione, una frustrazione e di conseguenza non avrá nessun motivo positivo per “attaccarsi” positivamente alle nuove persone di riferimento all’interno del reparto. Quello che si verifica appare essere una vera e propria frattura: “sto male, mi espellono e non si curano piú di me; e questi che stanno qui sono solo i miei carcerieri…con i quali tuttal piú mi converrá fare il bravo se voglio usciere presto…”; qui possiamo dunque avere un primo vissuto di espulsione/abbandono piuttosto frustrante (la frustrazione é all’origine della rabbia); il paziente entra in reparto, magari non volontariamente ed é piuttosto arrabbiato perché non ci vuole andare, ma anche perché gli operatori che si erano proposti come persona di cui fidarsi ce lo hanno mandato per poi defilarsi; a questo punto si trova ad aver a che fare con altri operatori, che conosce di meno o non conosce del tutto (e che reciprocamente conoscono poco o niente il paziente), verso i quali non gli resta che portare le proprie manifestazioni di rabbia (sia provenienti dal suo disturbo ma anche dalla frustrazione relazionale con gli operatori del territorio). Gli operatori che lo hanno portato poi gli avranno detto che si rivedranno quando lui stará meglio (messaggio: cosí non ti accettiamo, ti portiamo nel posto dove ti “aggiustano”)
Fattori relativi all‘organizzazione del Servizio di Salute Mentale
Disomogeneitá nella distribuzione-utilizzo delle risorse. Il luogo dove la contenzione fisica avviene é il reparto psichiatrico per acuti; spesso questo luogo, pur trovandosi all’interno del territorio, viene vissuto e “praticato” come corpo estraneo al territorio stesso, da cui pure proviene la situazione acuta. Allora immaginiamoci che il paziente acuto venga accompagnato fino alla soglia del reparto e poi gli operatori di fuori si arrestino di fronte a tale soglia, perché “il reparto non é il territorio”.Al reparto viene delegata la gestione dell’acuzie, il compito di contenimento dell’acuzie, laddove massima é la possibilitá di agiti aggressivi. A quel punto il paziente viene chiuso dentro e lui e gli operatori devono far reciproca conoscenza, proprio in una fas in cui le capacitá relazionali del paziente sono molto probabilmente limitate; e proprio in questo frangente si trova a d aver a che fare con operatori che poco o niente magari lo conoscono e che lui poco o niente conosce.
Se il singolo operatore é lasciato solo di fronte a questo compito, se il reparto come gruppo di lavoro é lasciato solo ad affrontare questo compito, aumenterá il rischio che si debba far ricorso alla contenzione, proprio perché all’interno di una situazione di diffidenza reciproca data dalla scarsa conoscenza reciproca, la comunicazione é tutta da costruire: é certamente meno difficile accettare delle misure normative o direttive da chi conosciamo, da chi sappiamo che si é occupato di noi anche in altri momenti meno negativi, che non da person che conosciamo in un momento di grave difficoltá e frustrazione: spesso questa apparentemente lapalissiana veritá psicologica viene peró trascurata.
Deresponsabilizzazione. Sicuramente per una equipe territoriale che non debba direttamente gestire il ricovero in SPDC del suo paziente, nel momento della crisi é facile e direi quasi legittimo (dal punto di vista delle dinamiche emotive) cadere nelle considerazioni tipo: “ci pensano in reparto … qualcun‘altro … altrove” : questo é il problema delle equipe spdc/csm separate: si mantiene l’idea che nell’ambito del sistema in cui ci si muove, ci sia sempre un altro luogo a cui mandare, altre persone a cui delegare (sia dal CSM verso l’SPDC, in fase di ospedalizzazioni, sia dall’SPDC al CSM in fase di dimissioni).
Mancanza di „gioco di squadra“. Poiché le crisi non rispettano turni di ferie, giorni festivi, convegni, corsi etc…é importante che i pazienti abbiano intorno a loro una rete di persone che gestisca in accordo un programma unico e non contraddittorio; é necessario quindi che ci sia una condivisione del modello operativo, che preveda che gli operatori, medici, infermieristici etc…si possano rendere intercambiabili, si possano sostituire nel portare avanti con coerenza lo stesso programma, quando gli operatori “titolari” sono assenti. La mancanza di questa condivisione puó facilmente portare all’incoerenza e molteplicitá e contradditorietá dei programmi, tutti ingredienti che portano diritti a fenomeni di scissione, a frustrazione, rabbia e rendono altamente piú probabile l’innescarsi della catena di eventi che conducono alla segregazione ed alla contenzione fisica.
Fattori relativi alla relazione di cura
Discontinuitá nelle relazioni. Se il paziente ed il suo gruppo (famigliare, sociale) si trovano di fronte di volta in volta operatori (psichiari, psicologi intermierei etc…) differenti, con differenti punti di vista, proposte terapeutiche differenti, spesso magari contrastanti, questo sará un ulteriore elemento di smarrimento, frustrazione e rabbia e sappiamo bene come tutti i messaggi poco chiari, ambivalenti o contradditori e conflittuali, possano svolgere ruolo di detonatori in una crisi psicotica, fino a condurre all’imbuto finale aggressivitá (reale, presunte, prevista, fantasticata) – contenzione (fisica, concreta).
Vissuti di abbandono; facilitazione dei fenomeni di „splitting“. Il terapeuta che mi manda in SPDC dove poi non sará lui a seguirmi, in realtá mi scarica, mi abbandona: un evento cosí “concreto” potrebbe resistere a tante ore di vacue parole per convincere che non si trattava di “abbandono”. Al CSM un terapeuta con le sue valutazioni, le sue idee, le sue proposte e le sue “imposizioni” terapeutiche; in SPDC un altro terapeuta con altrettante proprie idee, proposte etc…niente di piú facile che questo induca, faciliti un fenomeno di scissione: il terapeuta buono e quello cattivo, il CSM luogo buono o cattivo mentre l’SPDC al contrario (di solito la scissione che si tende a coltivare di piú, anche nei servizi é quella CSM buono/ SPDC cattivo). Chiaro che quando il nostro paziente arriverá nell’SPDC “cattivo” non sará cosí ben predisposto a non reagire alla sua segregazione presso i “cattivi”.
FATTORI CHE FAVORISCONO LA NON CONTENZIONE
I fattori che favoriscono il non ricorso alla contenzione fisica saranno ovviamente quei comportamenti organizzativi e relazionali che interrompono o che non mettono in gioco i fattori che favoriscono la contenzione. Questi sono sostanzialmente riassumibili nel mantenimento di una reale continuitá terapeutica e nella positivizzazione del vissuto anche nei momenti „normativi“ (es.TSO).
Continuitá terapeutica. Articolerei questo principio teorico-operativo in tre concetti: una sola equipe sul territorio; spdc „luogo“ del territorio; spdc aperto perché la realtá vi possa entrare. Questo significa che l’equipe territoriale continua d essere terapeuticamente referente per ogni suo paziente anche nel luogo del territorio chiamato SPDC, nel quale dunque non agisce, quantomeno a livello medico-psicologico, una equipe dedicata al solo SPDC, ma agiscono tutti gli operatori che operano anche al CSM; l’SPDC quindi non deve rimanere chiuso sia letteralmente che metaforicamente, piú per non impedire di essere frequentato dall’esterno che per impedire la “fuga” di chi vi sta dentro.
Allora lo psichiatra referente territorialmente sará lo stesso che invia il paziente all’SPDC e che lo seguirá anche all’interno del reparto, gestendo il ricovero e la dimissione. La dimissione, momento spesso problematicola sará assolutamente “protetta” in quanto sará per cosí dire dello psichaitra a se stesso, in quanto anche medico del CSM ed all’equipe stessa, i cui operatori, nel periodo di degenza ospedaliera del paziente, avranno mantenuto saldi contatti con lui (andandolo a trovare, accompagnandolo nelle uscite etc..). In sostanza in questo modo il paziente non sará né scaricato temporaneamente, né abbandonato, sia sotto il profilo della presenza concreta che, soprattutto, nella mente del gruppo curante, e sappiamo bene quanto sia importante per l’ autostima e per lo svluppo delle capacitá metacognitive, sapere di essere pensati da qualcuno (e sappiamo anche quanto sia importante che nei paziente psicotici venga promosso lo sviluppo di tali caapcitá metacognitive, di cui sono molto deficitari).
Momenti normativi. Nel contesto di una tale continuitá ed assunzione di responsabilitá da parte del “gruppo dei terapeuti”, va da se che anche momenti normativi nella relazione col paziente, come quelli in cui si debba far ricorso alla misura del TSO, anziché rappresentare momenti di rottura nella relazione, possano esser momenti in cui é messa a nudo la responsabilitá del gruppo dei terapeuti rispetto alla persona, momenti in cui il gruppo terapeutico veicola un forte messaggio di cura ed attenzione verso il paziente. Non é piú il messaggio “non ce la facciamo piú, non ti reggiamo piú, non ti vogliamo piú” ma é il messaggio “stai male e ci assumiamo fino in fondo la responsabilitá di una decisione di cura e protezione nei tuoi confronti e continuiamo a curarti, ad averti nel nostro “cerchio”” e, aggiungerei, “ti ringraziamo perché con la tua presenza e la presenza dei problemi spesso apparentemente insolubili che ci poni (a tanti livelli: medico, psicologico, sociale, istituzionale) ci spingi ad affilare le nostre menti, a rinforzare i nostri cuori a sentirci profondamente presenti nella realtá”.
CONCLUSIONI
In conclusione, ribadendo l’importanza dell’organizzazione complessiva di un Servizio di Salute Mentale e delle relazioni terapeutiche che al suo interno possono o non possono attuarsi, ribadendo l’importanza di una riflessione “autoriflessiva”, perché no, sulla dignitá intellettuale e la tradizione umanistico-scientifica del lavoro nell’ambito della salute mentale, vorrei aggiungere uno spunto di riflessione telativo a quello che definirei errore del „confinamento“.
La contenzione fisica é una misura a cui si ricorre nel caso di un disagio mentale intenso, estremo, che ci interroga violentemente sui motivi “maggiori” del disagio. Nella letteratura il contesto proposto é quello confinato del reparto…perché questo errore? La sofferenza mentale é come quella fisica? da confinare in un preciso luogo di pertinenza, ovvero l‘ospedale / reparto psichiatrico fino a riparazione avvenuta? Oppure, per parafrasare Shakespeare, non é forse fatta la sofferenza mentale, dei „malati mentali „,della stessa materia di cui é fatta la nostra? e allora non ha a che fare la nostra sofferenza con le cose stesse della nostra vita? e non é forse vero che per „curarci“ dobbiamo agire sulle cose (pensieri, emozioni, situazioni) della nostra vita? E allora per curare la sofferenza dei „malati mentali“ non dobbiamo agire sulla loro vita? E come facciamo ad agire sulla loro vita se la confiniamo ad un letto o ad una struttura e chiudiamo lá il discorso….?