Nella pratica clinica in un servizio di psichiatria pubblica, a ben guardare, si osserva che la solitudine è spesso un importante fattore di scatenamento e di mantenimento del disagio mentale, qualunque forma questo assuma.
E cosa facciamo se allora ci accorgiamo che un paziente si scompensa quando vive nella propria abitazione, pur ben riabilitato ma solo, e invece sta meglio ogni volta che è inserito in una struttura, dove, aldilà di cure specifiche, si trova in una situazione di condivisione della quotidianità con altre persone?
Ci stupiremo per il fatto che aveva raggiunto un ottimo livello di compenso, di capacità sociali e lavorative, cominceremo col pensare che magari non abbia più assunto la terapia, oppure che la terapia che assume non funzioni. Metteremo in atto delle misure di controllo dell’assunzione dei farmaci o modificheremo la terapia. Magari ce lo chiederà il paziente stesso o ce lo chiederanno i familiari. E però forse non risolveremo il vero problema, il fattore scatenante, la solitudine.
In ambito terapeutico non piace confrontarsi con un problema simile perché la soluzione è meno facile se non ad ipotizzarsi a realizzarsi; è più semplice, sia per il paziente che per i suoi familiari e per i curanti, pensare che il disagio dipenda dalla malattia, che dipende a sua volta da una disfunzione del cervello, che si aggiusta prescrivendo la giusta terapia farmacologica oppure che la malattia dipenda da vicende psicologiche, che pur se spesso insondabili ed imperscrutabili e immodificabili si può sempre tentare di andare a cercare, con regolari sedute psicoterapeutiche. In ogni tutto ciò ha una senso di malattia e di terapia ed ha il “vantaggio” di creare un identità precisa sia al malato che al curante.
E se il problema, ciò che rende meno efficace tutto il resto se non talvolta inutile, fosse invece davvero “solo” la solitudine, cosa potremmo fare? vivere per sempre in una struttura psichiatrica? Tentare un inserimento anche precoce per età, una casa di riposo? Oppure forse cercare soluzioni inusuali ma innovative: condividere un’abitazione con una altra persona, accettare la sfida di convivere con qualcun’altro, ritrovando con un apparente paradosso, proprio in un contesto anche “microcomunitario” il senso della propria individualità, del proprio percorso di malattia , di cura e di esistenza?
I farmaci, come le terapie psicologiche del resto, sono ottimi strumenti di cura e di risoluzione della sofferenza, però non possiamo aspettarci che risolvano problemi di solitudine.
Impariamo a non chiederglielo.
Molto interessante.
„Impariamo a non chiederglielo.“
Potrebbe spiegare quale teoria o quale concetto sta dietro questa sua conclusione?
Grazie
Le cause della sofferenza psichica sono molteplici, di ordine biologico, psicologico o sociale; quando capiamo che uno stato di sofferenza può essere correlato ad una condizione di ordine psicologico o sociale (come ad esempio la solitudine), probabilmente potremo mettere in atto una cura efficace agendo allo stesso livello, psicologico e/o sociale appunto; i farmaci da soli, che agiscono ad un livello biologico, non risolveranno il problema della solitudine.
E’ interessante notare che ad esempio in Gran Bretagna, dal 2018 è stato creato il Ministero della Solitudine, per dire quanto sia rilevante il problema e quanto non sia un problema sanitario o medico in senso stretto ed un problema a cui non è semplice dare risposta.
Grazie della sua risposta.
Il progetto „Funtography“ potrebbe essere una delle soluzioni per affrontare il problema della solitudine.
In effetti pur essendo nato per la riabilitazione psicosociale nelle strutture residenziali, si applicherebbe bene anche a livello domiciliare ed in effetti potrebbe avere una valenza importante per rompere la solitudine.
Grazie del contributo.
“Der Mensch spielt nur, wo er in voller Bedeutung des Wortes Mensch ist, und er ist nur da ganz Mensch, wo er spielt.”
Questa citazione viene attribuita a Friedrich Schiller.
Poteva anche essere di Fjodor Michailowitsch Dostojewski, perché gira la voce che lui sia stato un giocatore.
Homo ludens.
Chissà? 🎶
Grazie per la interessante citazione. Mi permetto solo di indicare che sarebbe da riferire più all’articolo du Funtography e quindi sulla funzione del gioco e della gamification.